In questo momento storico nelle stanze di terapia sembra che si vada sempre più ampliando la discrepanza tra linguaggio e realtà viva dell’esperienza. Si coglie come la dissociazione di alcune parti, o dell’intero sé, non sia più soltanto una patologia di un singolo individuo, ma dell’intero discorso culturale, sradicato com’è dal suo terreno naturale, corporeo, originario. E veritativo. Come sottolinea Ivano Dionigi (2022), sul piano sociale sembra essersi rotto il patto di catoniana memoria tra le cose (le res) e le parole (i verba) e la parola non tiene più dietro alla cosa, ma viene ridotta a vocabolo ed identificata unicamente con medium comunicativo. D’altronde viviamo immersi in un’epoca di controsensi ed ossimori: reagiamo all’apertura della globalizzazione chiudendoci con muri fisici e mentali; sperimentiamo un progressivo impoverimento delle capacità di comprensione verbale, a fronte di un’esplosione dei mezzi di comunicazione, e a fronte della complessità e moltiplicazione dei problemi economici, sociali e morali operiamo una riduzione e un impoverimento del lessico. Sembra che quello linguistico sia un nuovo squilibrio che si aggiunge a quello sociale dell’immigrazione, ambientale del pianeta e sanitario della pandemia.

La parola non è proprietà personale né creazione del presente, ma si iscrive nella dimensione sociale e storica, e per questo richiama la necessità di una visione multidisciplinare ed integrata, compresa com’è tra natura e cultura, tra intrapsichico e intersoggettivo, tra bambino e adulto. Con Morin potremmo dire che essa è un oggetto complesso che stimola la necessità di una metodologia di riflessione che entra in contatto con il paradosso e la contraddizione, essendo una realtà viva e co-costruita, che fa parte di quel mondo naturale in cui la realtà umana della cultura con i suoi significati e i suoi simboli è pienamente compresa. Come una matassa di fili intrecciati richiama la necessità di una riduzione, la scelta di un filo da cui partire, ed un certo ordine con cui procedere per non confondersi. Seguendo questa immagine, il filo che seguirò è l’ontogenesi del linguaggio lungo lo sviluppo del bambino. Nel seguire questo filo dovremo fare riferimento alle due o tre fibre che si intrecciano nella composizione del filo stesso; la psicanalisi evolutiva, gli autori della ricerca evolutiva e qualche esponente della linguistica. Individuerò lungo questo tragitto dei nodi cruciali per l’evoluzione della significatività, della narratività e della capacità comunicativa che sono gli antefatti, i pre-requisiti che anticipano il linguaggio, ne preparano il terreno e ne orientano lo sviluppo, la sua efficacia e ricchezza.

Il paradosso della natura umana per la psicanalisi

Parlando della Natura umana, Winnicott (1975) si pone questa domanda: ‘Qual è lo stato dell’essere umano in cui l’essere emerge dal non essere? Quali sono le basi della natura umana in termini di sviluppo individuale? Qual è lo stato fondamentale al quale ogni individuo, per quanto vecchio e con qualsivoglia esperienza, può ritornare per ricominciare da capo?’. E risponde: ‘Una descrizione di questa condizione deve implicare un paradosso. All’inizio vi è uno stato di solitudine fondamentale. Prima di essere soli, dice, non si è vivi’. Tanto da considerare questa solitudine come uno stato di transizione tra la vita e la non vita. Ma questo stato di solitudine, questo isolamento fondante deve essere sostenuto da un ambiente umano. Nella lunga evoluzione del feto, dalla storia pre-organismica nella composizione genetica dei genitori, alla nascita e poi nell’evoluzione drammaticamente rapida del bambino nei primi due anni di vita, l’essere umano vive una condizione profondamente dipendente: all’inizio letteralmente, dentro la madre, poi nel rapporto post-natale. La progressione che va dall’essere solo prima della nascita alla capacità dell’adulto di essere solo (l’isolarsi), è una testimonianza del nostro Sé iniziale, secondo Bollas (2001) dell’esperienza dell’idioma del vero Sé. Come a dire che questa solitudine è il contenitore del Sé più profondo, la potenzialità innata di sentire la continuità dell’esistenza e di acquisire a modo proprio, con un proprio ritmo, una realtà psichica e uno schema corporeo personali. Fenomenologicamente il vero Sé consiste nell’intensa e profonda percezione di essere vivi; nella sensazione di quel fondamentale esserci che tanto è più silenzioso e presente nella fisiologia, tanto è evidente e fragorosa la sua mancanza nei quadri clinici di alcuni pazienti-bambini o adulti che siano.

Dunque, noi partiamo da questo paradosso: questo nucleo del Sé che è presenza unica dell’essere di ciascuno di noi, l’idioma della nostra personalità, è però solo un potenziale perché la sua evoluzione dipende dalle cure umane.

In un’immagine possiamo vedere il balbettio che precede la parola del bambino come qualcosa di piccolo, ma molto ‘corposo’, con lunghe ombre proiettate alle spalle. Queste ombre ‒ che Bollas ha chiamato appunto l’Ombra dell’oggetto ‒ sono piene di storie di vita, di narrazioni e storie carnali e preverbali che provengono da un luogo delle origini che non è solo un contenuto rimosso, ma anche una relazione incarnata, e un crocicchio dei drammi transgenerazionali di una famiglia. Possiamo dire che il terreno da cui germoglia la parola è un luogo conosciuto non pensato, dove si intrecciano paradossalmente vero e falso sé, passato e futuro, intrapsichico e intersoggettivo. Ma come si intrecciano queste forze? E qual è la loro forma originaria ed il loro destino una volta che emerge il linguaggio nello sviluppo del bambino?

 La significatività umana e la sua origine

L’essere umano è un essere vivente sociale, che vive interagendo quotidianamente con i suoi simili. La partecipazione ad una qualunque di queste interazioni sociali presuppone un’attribuzione di significato sia agli atti linguistici, sia al contesto più ampio in cui questa interazione avviene. La lingua, d’altra parte, riassume questi due piani, compresa tra il livello semiotico e quello semantico. Come diceva Benveniste (2010), il livello semiotico designa il modo proprio del segno linguistico e lo costituisce come unità e la sola domanda che il segno suscita è quello della sua esistenza, che si decide con un sì o un no. Albero, canzone, giallo, sopra esistono; olbero, vanzone, diallo e topra no. Il segno esiste quando è riconosciuto come significante dai membri della comunità linguistica. Col semantico, entriamo invece nel modo specifico di significazione del discorso. L’attribuzione di questo significato dipende dalle informazioni scambiate verbalmente, così come dal contesto e da ciò che un soggetto può presupporre che il suo interlocutore potrebbe dire o fare in quella data situazione. Il semiotico è una proprietà della lingua e come tale è in sé generale, e quindi deve essere riconosciuto. Il semantico risulta da un’attività individuale del locutore che mette in azione la lingua ed è pertanto sempre particolare: il semantico va compreso.

Secondo Bruner (1992) la narrazione, il livello semantico, è il primo dispositivo interpretativo e conoscitivo di cui il bambino ‒ in quanto soggetto socio culturalmente situato – fa uso nella propria esperienza di vita. Attraverso la narrazione conferisce senso e significato al proprio esperire e delinea coordinate interpretative e prefigurative di eventi, azioni, situazioni e su queste basi costruisce forme di conoscenza che lo orientano nel suo agire.

Le esperienze umane non rielaborate attraverso il pensiero narrativo non producono conoscenza funzionale al vivere in un contesto socio-culturale, ma rimangono accadimenti ed eventi opachi, non comprensibili all’interno di un universo di discorso e di senso, in quanto non sono interpretabili in riferimento agli stati intenzionali dei loro protagonisti, né tanto meno sono collocabili all’interno di un continuum che le renda parte viva e vitale di una storia (personale o collettiva che sia). Restano quindi accadimenti ed eventi senza relazione, privi di senso e di qualsivoglia significato sul piano culturale, personale, sociale e di conseguenza sono condannate all’oblio, potremmo dire a fare sintomo.

La ricerca evolutiva e la narratività

Un numero crescente di lavori in ricerca evolutiva dimostra come un’intelligenza narrativa precoce si strutturi psicologicamente e temporalmente a partire da ritmi psicobiologici innati, e che sia operativa ed osservabile empiricamente nei cicli delle attività tra bambini piccoli e caregiver, venendo co-creata nelle interazioni con caregiver che siano attenti e disponibili. Moduli narrativi sono stati identificati per la prima volta nella reciprocità di affetti e interessi condivisi nel gioco tra adulti e bambini, con il loro caratteristico aumento e diminuzione di eccitazione, cioè in quelli che Daniel Stern (1985) chiama ‘involucri proto narrativi’. Sono queste prime narrazioni e modelli di condivisione intermodale di stati affettivi che generano ciò che Trevarthen (2008) ha identificato in modo simile come ‘proto conversazioni’. Queste esperienze assorbono successivamente il linguaggio così come le rappresentazioni di intenzioni, oggetti, eventi ed emozioni, creando le conversazioni dell’età adulta intrise di significati in narrazioni sempre più complesse. Le narrazioni incarnate e non verbali possono formare atti completi di significato espressi nelle forme vitali dei movimenti del corpo attraverso gesti e spostamenti posturali, cambiamenti nelle espressioni facciali e vocalizzazioni non verbali. E questo è uno strato che rimane per tutta la vita. Anche nell’età adulta dove si utilizza profusamente il linguaggio verbale, il movimento espressivo del corpo può trasmettere significati narrativi, con o senza parole, all’interno di una forma di musicalità o di tempi e qualità condivisi, come negli spettacoli di danza, per esempio.

Studiando in modalità microanalitica queste interazioni sono state osservate diverse qualità che potremmo riassumere in alcuni punti essenziali.

Musicalità

 Malloch (2000) ha identificato le caratteristiche formali della musica all’interno della struttura vocale delle proto-conversazioni madre-bambino. Queste caratteristiche includevano (a) un senso del tempo condiviso tra i partner e un allineamento delle espressioni all’interno di questo ordine temporale, o ritmo (b) una reciprocità della qualità dell’espressione della voce o del corpo (c) una forma narrativa musicale creata da tempo condiviso e qualità di espressione reciproche attraverso una struttura in quattro parti di introduzione, sviluppo, climax e risoluzione.

 Longitudinalità tra coordinazione vocale e funzionamento cognitivo superiore

 Jaffe (2001) studiando diadi madri bambino, ha segnalato come la presenza di una buona o di una mancata coordinazione vocale a 4 mesi predice lo sviluppo dell’attaccamento e della cognizione a 12 mesi. La qualità del dialogo ‒ una danza più o meno coordinata ‒ è considerata essenziale per la cognitività e i legami affettivi, e questo processo evolutivo consente anche la comparsa di rappresentazioni simboliche complesse. Questo modello è confermato anche dalla ricerca nell’ambito della teoria dell’attaccamento, dove i due principali strumenti di ricerca, che sono la Strange situation e l’Adult attachment interview, chiariscono in che modo i modelli operativi interni immagazzinino l’esperienza delle relazioni precoci entro schemi di significato che determinano gli atteggiamenti, il comportamento e anche il modo in cui il soggetto narra e si narra le proprie esperienze di vita più significative.

Le forme vitali

Studiando le forme di questo dialogo molto precoce, Stern (2011) osservò che i dialoghi tra madre e il proprio bambino si effettuano non solo e non tanto con singole categorie affettive ‘classiche’ come la tristezza, la gioia, ecc., quanto e soprattutto con quelle che definisce forme vitali. Cosa sono le forme vitali? Potremmo dire le forme del nostro sentire che sono inestricabilmente legate a tutti i processi fondamentali della vita, il modo in cui respiriamo, con cui arriva la fame, o sentiamo l’impellenza dell’evacuazione, in cui cadiamo ed emergiamo dal sonno, ma anche come si presentano e svaniscono emozioni e pensieri. Forme che vengono espresse nel modo in cui la madre prende in braccio il bambino, piega i pannolini, si pettina o pettina il piccolo, prende e gli dà il biberon o si sbottona la camicetta per allattarlo, o muove la salviettina per pulirlo. La qualità di questo fondo originario dell’esperienza madre-bambino si esprime attraverso termini dinamico-cenestesici che hanno a che fare con il movimento come ‘fluttuare’, ‘svanire’, ‘crescere’, ‘decrescere’, ‘esplodere’, ‘sgonfiarsi’, ‘esaurirsi’, ‘librarsi’. Termini cioè che danno espressione a quella particolare modalità di energetica che è sottesa nelle nostre azioni.

Le origini della narrazione nell’intelligenza sensomotoria

 Spostando il vertice di osservazione dalla diade al bambino, Mc Gowan e Delafield Butt (2022) identificano le origini della narrazione nell’intelligenza sensomotoria innata del corpo umano e rintracciano nel movimento fetale e poi neonatale la prima espressione nell’ontogenesi della forma narrativa. Nelle espressioni motorie del feto a metà gestazione è già evidenziabile nei gesti una pianificazione intelligente, con consapevolezza di sé. Dopo la nascita a partire da schemi motori innati che fanno capo a reazioni tipo arco riflesso, come ad esempio il riflesso di Moro o di abbrancamento, questi schemi riflessi divengono, nel tempo, delle vere e proprie azioni dotate di una intenzionalità, che all’inizio è semplice e poi via via si fa atto progettuale organizzato, grazie a degli obiettivi sempre più distali e ad una rilettura e rinforzo sociale da parte del caregiver che dà significato a tali atti. Dalle semplici intenzioni dei movimenti neonatali, e poi nelle imitazioni sociali dei neonati, così come nelle proto-conversazioni dei lattanti e caregiver e fino ai giochi tra adulti e bambini, in tutte queste azioni al movimento del bambino l’adulto co-risponde al movimento del bambino con un commento verbale secondo una sintonia ritmica. È possibile riconoscere in tutti questi passaggi motorio-comunicativi un ‘fraseggio’, una forma narrativa che si compone di una struttura ritmica in 4 tempi: un momento di ‘introduzione’, lo ‘sviluppo’, il ‘climax’ e la ‘risoluzione’.

Quindi, tornando al filo del nostro discorso, potremmo dire che il linguaggio che si costruisce su questa base ritmica si sviluppa da una struttura psicomotoria di base che cresce in maniera tale dal basso verso l’alto, e che da una base biologica innata attraverso un ambiente di cure e di cultura ‒ nel senso lato del termine ‒ arriva a configurare l’evoluzione del linguaggio con le sue possibilità rappresentazionali. Tali ricerche sono per altro molto compatibili con il lavoro svolto da Jean Knox (2003) di revisione sulle forme dei concetti di archetipi proposti da Jung alla luce delle conoscenze della ricerca scientifica contemporanea. Nelle prime settimane di vita, ad esempio, Knox dice che un neonato è capace di riconoscere lo schema di base dei tratti del volto umano, e questo perché si attiva un’attenzione selettiva e focalizzata verso tale tipo di forma che aggancia lo sguardo del bambino in maniera maggiore rispetto a tutti gli altri input ambientali. Il neonato si orienta verso il volto umano sotto la guida di un riflesso senso motorio e non è necessario, né possibile, che comprenda il ‘significato’ di un volto. Così come un neonato parte da una capacità ritmica innata, che non può comprendere forme di significato concettuali più categoriali ‒ come seno buono, seno cattivo ‒ che andranno formandosi solo nel tempo e con un lungo lavoro di significazione da parte di un ambiente di cure, socialmente e culturalmente individuato.

L’idioma delle cure, l’estetica del linguaggio ‒ dall’età neonatale ai primi mesi di vita

Quindi, visualizziamo di fronte a noi una mamma e un piccolo o una piccola che insieme chiacchierano un loro discorso molto privato e musicale, che non utilizza solo le parole ma una intensa espressività veicolata: dal tono della voce che si declina nelle più svariate tonalità e forme, dalla postura del corpo e i suoi movimenti in tutta la gamma possibile della sua vitalità, per altro caratteristica e molto personale. Mentre accade questo, madre e figlio stanno esprimendo e comprendendo moltissime informazioni, presenti, passate e per il futuro. Potremmo dire, seguendo Bollas (2007), che la madre, mentre sostiene la vita del bambino nei suoi bisogni fisiologici, gli trasmette anche il suo particolare idioma di cura, un’estetica dell’essere che diventa una caratteristica del sé del bambino e del modo in cui fare relazione con gli altri e con se stesso. Come sappiamo dagli studi che sono coevi alla teorizzazione del conosciuto non pensato, e che Bollas cita nella sua bibliografia, lo sviluppo stesso del bambino ha una sua grammatica evolutiva che gli permette di conoscere la realtà e farne esperienza in una modalità che inizialmente è tutt’altro che relazionale o simbolica.

Stern (1985) parla della vita di un neonato come di una realtà a fortissima dominanza sensoriale, dove nessuna delle cose viste, toccate o sentite ha un nome o una funzione e pochissime sono collegate a dei ricordi, che semplicemente ancora non esistono. Le primissime fasi della vita mentale avvengono attraverso l’esperienza delle sensazioni che gli oggetti e gli avvenimenti provocano. Non essendo matura la modalità di riconoscimento del suono come di una parola, originariamente è il modo in cui un suono fluttua che è significativo per un’esperienza che si traccia: se ne apprezza lo svolgimento lento e rassicurante, oppure se ne può avvertire l’impatto sconvolgente ed eccitante, e così via. A mano a mano che la madre contribuisce all’integrazione dell’essere del bambino ‒ integrazione sensoriale, istintuale, affettiva, cognitiva ‒ sono i ritmi e le qualità di questo processo dalla non integrazione all’integrazione che iniziano a dare a questo rapporto una continuità rappresentabile, che è la premessa ad un’emersione della relazione oggettuale. Questa fase apparentemente così muta dello sviluppo, in realtà è la matrice esperienziale da cui sorgeranno in seguito pensieri e forme percepite, atti identificabili e sentimenti verbalizzati. Questa è l’origine delle valutazioni affettive da cui emerge la possibilità o meno dell’organizzazione e della forma dell’apprendimento. In questa visione dello sviluppo, entrambi gli autori rimandano l’immagine della strutturazione dell’IO come una forma di memoria costitutiva profonda: il carattere è l’idioma con cui si dà voce all’esperienza storica del processo di cura materno e paterno, in cui si esprimono le loro complesse norme consce ed inconsce sull’essere e il mettersi in rapporto. La ‘sublimazione’ di questa struttura profonda in narrazione è uno dei compiti più profondi e trasformativi di una psicoterapia.

L’intersoggettività e i canali del transgenerazionale – 9-12 mesi

Crescendo, un altro dei momenti più eloquenti per cogliere i precursori del linguaggio nel dialogo tra la madre ed il figlio è il lasso di tempo tra i 7-12 mesi, in cui le competenze intersoggettive del bambino emergono e si formano attraverso la sintonizzazione materna. In questa fascia di età il bambino acquisisce tre funzioni mentali di grande rilevanza per il mondo interpersonale, che non richiedono il linguaggio ma lo preparano, e permettono l’emergere della consapevolezza di avere una mente e che anche gli altri ce l’hanno:

  1. la partecipazione dell’attenzione: ovvero il gesto di puntare il dito in una direzione e l’atto di seguire lo sguardo di un altro verso il raggiungimento di un’attenzione congiunta, che secondo Tomassello è uno dei principali organizzatori prelinguistici del linguaggio;
  2. la compartecipazione delle intenzioni;
  3. la compartecipazione degli stati affettivi.

I bambini in questa fase giungono gradualmente a rendersi conto che le esperienze soggettive della loro vita interiore, i ‘contenuti’ della loro mente, sono potenzialmente condivisibili con gli altri. Il contenuto della mente, in questa fase dello sviluppo, può essere molto semplice e tuttavia molto importante: un’intenzione di agire (voglio quel dolce), uno stato d’animo (questa cosa è molto interessante) o la messa a fuoco dell’attenzione su un oggetto (guardo il cane che si gratta). Solo quando il bambino può accorgersi che gli altri, pur separati e distinti da lui, possono avere e conservare uno stato mentale simile al suo, egli è in grado di condividere l’esperienza soggettiva e di conseguenza appare l’intersoggettività. Questo cambiamento conferisce al bambino una presenza e una sensibilità sociale diversa, ed i genitori in genere cominciano a trattarlo e a rivolgersi a lui in una modalità molto diversa da prima. Chiaramente questa modalità interattiva e mentale nuova viene edificata sulle fondamenta delle modalità relazionali precedenti: condividere esperienze soggettive non avrebbe alcun significato senza la previa e salda acquisizione dell’esperienza di un sé e di un altro separati e distinti.

Stern (1985) si è particolarmente dedicato allo studio di questo passaggio, attraverso l’analisi microanalitica su videoregistrazioni di momenti di scambio libero tra madre e bambino, e ha chiarito che quando le madri si sintonizzano con uno stato affettivo del bambino non imitano specularmente il suo stato d’animo, ma creano delle ‘variazioni sul tema’ aggiungendo un qualcosa in più al suo stato soggettivo. Le modalità di sintonizzazione individuate sono diverse: quelle più frequenti ‒ in un campione normativo ‒ sono le sintonizzazioni dette ‘di comunione’, dove le madri cercano di uniformarsi con esattezza non al comportamento manifesto, ma allo stato interno del bambino per ‘essere con’ lui; ciò che potrebbe essere considerato come lo scaffolding ‒ il sostegno ‒ della mente del bambino. Altre modalità di entrare in relazione con il bambino vengono notate da Stern e descritte come sintonizzazioni mancate, ovvero volutamente o non volutamente imperfette, laddove la madre deforma con stati emotivi personali la risposta al bambino, che per ritmo, temporalità, livello di arousal non è in sintonia con lo stato del piccolo. Questi momenti di interazione sono uno degli strumenti più efficaci di cui i genitori dispongono per plasmare lo sviluppo della vita soggettiva ed interpersonale del bambino, costituendo tra l’altro uno dei veicoli per le fantasie dei genitori sui loro bambini; la sensibilità della risposta intersoggettiva dei genitori agisce come uno stampo nel creare e plasmare nel bambino esperienze intrapsichiche corrispondenti, stabilendo quali comportamenti siano accettabili e quali no. È così che i desideri, le paure, le proibizioni, le credenze dei genitori segnano le esperienze psichiche dei bambini ed è così che può iniziare a formarsi un Falso Sé, o isole di sé alieni nella mente del bambino. Chiaramente nessun essere umano è solo Vero Sé e ciascuna disposizione innata si incontra con il mondo reale; uno dei prodotti della dialettica tra idioma personale e cultura umana – di cui i genitori sono portatori ‒ è la vita psichica. Tuttavia, questo ancoraggio intersoggettivo può garantire una modalità strutturante che permette di ricevere risorse, di differenziarsi e accedere ad una mente e ad una parola soggettiva; oppure può configurarsi come un fato che condanna ad identificarsi con parti scisse non rappresentabili mentalmente, ma incistate alla stregua di tracce prive di memoria esplicita, trasmesse nel silenzio, o nella parola, del corpo.

Riepilogando, gli studiosi che si sono interessati all’acquisizione del linguaggio da parte dei bambini hanno trovato le origini del linguaggio nei gesti, nelle posture, nelle azioni e nelle vocalizzazioni non verbali che lo precedono. Queste forme, definite come proto-linguistiche, implicano via via nel corso del tempo dei momenti di sempre più esplicita partecipazione intersoggettiva. La madre interpreta tutti i comportamenti del bambino con riferimento a significati e fornisce l’elemento semantico, all’inizio da sola, inserendo il comportamento del bambino nella griglia dei significati da lei creata attraverso la sua particolare forma di intelligenza narrativa; poi, man mano che si sviluppano le capacità del bambino, la griglia dei significati viene creata dalle due parti insieme. Questo è quanto ci insegna la ricerca evolutiva. Ampliando da un punto di vista clinico il concetto di significazione materna ‒ e paterna ‒ potremmo dire che i ‘significati’ che i genitori riflettono non includono solo ciò che loro osservano, ma anche le proprie fantasie circa l’identità del bambino e il suo futuro. L’intersoggettività comprende in ultima analisi anche la fantasia, e la creazione di questi significati è stata chiamata appunto ‘interazione fantasmatica’.

Da “Quaderni di cultura Junghiana” di Anna Maria Cester