Iniziamo questa rubrica, come accennavamo nell’editoriale, con la lettura di uno degli studiosi contemporanei che si impegna nel tracciare un percorso di comprensione del pensiero occidentale per cogliere i luoghi dove la nostra tradizione di pensiero ha preso la deriva che lo ha portato verso il cosiddetto antropocene e le derive catastrofiche da questo prodotte. Anche la psicanalisi, in quanto figlia del pensiero occidentale, non è immune da questa direzione del pensiero antropocenico ed antropocentrico e pertanto nel piccolo tenteremo anche noi di compiere questo dialogo con più discipline per provare a riflettere sui limiti e le potenzialità della nostra conoscenza psicanalitica di saper leggere e quindi cogliere le sfide della contemporaneità e del futuro.

Tim Ingold, di cui proponiamo oggi la lettura del libro Making. Antropologia, archeologia, arte e architettura, è professore di antropologia sociale all’Università di Aberdeen e si impegna sull’articolazione di un pensiero “anti disciplinare” che attraversi “quattro A” – antropologia, arte, architettura, archeologia –. Il testo nasce da un corso in cui l’autore ha attinto a esperienze pratiche condotte durante le lezioni come scheggiare una pietra, “incorniciare” un paesaggio, costruire un tumulo, entrare in contatto con un materiale, per costruire un pensiero attraverso il produrre. Questa la tesi che in particolare ci interessa cogliere del suo articolato pensiero: “produrre significa stabilire una corrispondenza tra l’artefice e il materiale”. Ovvero, come uscire dalla concezione ilomorfica, l’idea che produrre significhi imporre una forma sul mondo materiale, per ripensare il “fare cose” (making) come un “processo di crescita”, un processo morfogenetico nato dalla corrispondenza tra artefice e materiale. Dice Ingold che occorre “re-imparare ad imparare”, processo che non deve prendere le mosse dalla descrizione a posteriori di qualche pratica, ma dall’applicazione del metodo di ricerca principe dell’antropologia, l’osservazione partecipante, in un coinvolgimento diretto con il mondo. Non quindi una raccolta dati su qualcosa, ma un “impegno ontologico con qualcosa. Nel testo si attraversano diverse pratiche in cui l’artefice “corrisponde” con i materiali. Teoria e pratica, in Ingold, non sono momenti differenti: l’atto di pensare avviene nel coinvolgimento diretto con le pratiche situate nel proprio contesto ecologico fatto di materiali, di natura, di flussi, di forze. Dalla constatazione del carattere fluido dei materiali, opposto alla solidità della materialità, si passa all’intreccio di cesti di vimini conficcati sulla spiaggia di Aberdeen, in cui l’intenzionalità dell’artefice si amalgama con la resistenza del materiale e la forza del vento, che imprimono una direzione differente alla forma del cesto “seguendo e assecondando le forze e i flussi che porteranno il lavoro a compimento”. Per Ingold, nelle riflessioni attorno alla produzione di questi oggetti si riscontra la fallacia della concezione che l’oggetto ritrovato sia corrispondente a un preesistente schema mentale. Entrando nel processo costruttivo, invece, la forma ottenuta emerge nell’itinerario portato avanti dalla complessa interazione tra la struttura dell’oggetto. La costruzione di case o di cattedrali e il design di oggetti lasciano la dimensione del progetto a priori e diventano processi creativi di risoluzione di problemi pratici, condotti attraverso tecniche concrete, nel costante e artigianale far fronte alle questioni poste dall’interazione tra il materiale, gli strumenti, l’ambiente e l’artefice. Ingold riporta al centro della pratica antropologica la consapevolezza che gli esseri umani vivono immersi in un ambiente caratterizzato da forze e movimenti nei quali sono presi ineluttabilmente, e l’unico modo che abbiamo per conoscere questo mondo è impegnarsi direttamente con esso, facendo crescere il nostro apprendimento dall’interno di pratiche.

Il libro Making è di lettura non facile e non sempre le tesi e le argomentazioni proposte da Ingold sono chiare. Tuttavia, la ricerca di questo antropologo appare onesta e appassionata intellettualmente, tanto da convincere ad addentrarsi in questo argomento anche nell’ambito della nostra pratica con il Gioco della Sabbia e della teoria psicanalitica. Qual è il nostro rapporto di umani con l’ambiente in termini di impegno ontologico e non di concezione ilomorfica? Quanto viviamo la realtà come esperienza di coinvolgimento diretto, dentro un ambiente, e quanto invece la guardiamo come un paesaggio? Domanda tanto più pregnante per chi lavora con il Gioco della Sabbia.

Harold Searles è tra i primi pensatori a evidenziare come la maggior parte delle riflessioni della psicoanalisi consideri processi intrapersonali e interpersonali e metta implicitamente su uno sfondo bidimensionale la totalità dell’ambiente umano e non umano, come su uno sfondo privo di forma, sostanza e peso. Mentre è convinto che all’interno dell’individuo, a livello conscio o inconscio, vi sia un senso di colleganza con l’ambiente non umano, fonte di sentimenti ambivalenti, che se ignorato comporta un grande rischio per l’individuo. La natura di questo legame si impone come interrogazione rispetto al tema del significato e dell’essenza dell’ambiente non umano. Si potrebbe obiettare che le cose siano talmente investite di significati personali e culturali – come direbbe Ingold, di pensiero ilomorfico – da non potere essere legittimamente chiamate non umane.  Ma per importante che sia il livello di una relazione di un individuo con un animale o con un albero in virtù dello spostamento o della proiezione, esiste sempre un altro livello a cui l’individuo vi si relaziona, ossia all’animale in quanto animale o all’albero in quanto albero. Jung, in merito alla struttura della psiche, sosteneva che la funzione della sensazione, che è la prima a differenziarsi, ci dice che una cosa è, e solo dopo altre funzioni ci dicono cosa è o che valore ha per noi.

James Gibson propone che le proprietà fisiche di un oggetto ci suggeriscono con immediatezza le azioni appropriate per utilizzarlo, un invito all’uso, un affordance. Questo concetto non appartiene né all’oggetto stesso né al suo utilizzatore, ma si viene a creare nella relazione che si instaura fra di essi. È, per così dire, una proprietà “distribuita”, come propone Ingold una Corrispondenza.

James Hillman in L’anima dei luoghi, parlando in merito al rapporto tra luoghi, memoria e corpo/materia, concorda con l’architetto Carlo Truppi sul fatto che come occidentali siamo stati eccessivamente educati alla mente e poco al corpo, per cui siamo poco inclini a raccogliere le sensazioni che un luogo ci trasmette, e più facilitati a racchiuderlo subito in significato. E cita gli studi di Gibson appunto, nella teoria della percezione diretta. Potremmo pensare con l’autore che la sensibilità ecologica non è altro che una forma di relazione tra l’uomo e le cose e questo schema percettivo di base della Colleganza tra soggetto e cose non è che il primo terreno, uno schema archetipico, secondo quanto potrebbe dire la Knox, da cui per amplificazioni e passaggi metaforici ed emotivi complessi che su questo si strutturano, si arriva alla formulazione dell’anima mundi.

E dunque, chi gioca con la sabbia, nel primo momento in cui si avvicina alla sabbiera in fondo cosa incontra? Solo contenuti rappresentazionali di se stesso? O anche la percezione di un processo dinamico? Come è noto, la caratteristica tipica del Gioco della Sabbia è di mettere in scena sia l’uso della materia che l’uso dell’oggetto, e d’altra parte, come ampiamente dimostrato da Daniel Stern, nel corso dello sviluppo il contatto con la materia precede il suo uso come oggetto. Il bambino non è, come ipotizzato da una prima psicanalisi, una macchina di egoismo distruttivo, autisticamente rinchiusa in se stessa, ed è il contatto con il corpo materno che permette l’assimilazione del linguaggio come strumento di scambio e scoperta dell’intelligenza, oltre che il desiderio di gioco e di riso da condividere che fanno del piccolo d’uomo un minuscolo sapiens che, abbattendo gli ostacoli che qua e là si possono innalzare intorno a lui, energicamente e fattivamente costruisce casa, mondo e una reciprocità capace di produrre e alimentare relazioni e fare comunità. Ma come ci insegna Winnicott diffusamente lungo tutta la sua opera, madre, prima che il soggetto umano, è l’ambiente che custodisce e sorregge il bambino, letteralmente. Cercando di rievocare l’esperienza delle primissime settimane di vita, Stern parla della vita di un piccolo nel proprio ambiente, come una realtà a fortissima dominanza sensoriale, dove nessuna delle cose viste, toccate o sentite ha un nome o una funzione e pochissime sono collegate a dei ricordi, che semplicemente ancora non esistono. Le primissime fasi della vita mentale avvengono attraverso l’esperienza delle sensazioni che gli oggetti e gli avvenimenti provocano. Non essendo matura la modalità di riconoscimento del suono come di una parola, originariamente è il modo in cui un suono fluttua che è significativo per un’esperienza che si tracci: se ne apprezza lo svolgimento lento e rassicurante, oppure se ne può avvertire l’impatto sconvolgente ed eccitante, e così via. Non vi sono oggetti su cui queste forze possono agire, né un io, una coscienza individuale distinta che li osservi dall’esterno: ma tutto è parte delle forze della natura. Riprendendo Ingold, forse dovremmo pensare che questo livello così originario in cui appunto è il flusso e l’emergenza di una processualità che determinano la qualità dell’esperienza, e lungi da essere considerato una fase grossolana e primitiva da colonizzare con evolute rappresentazioni, possa e debba essere coltivato come il livello di corrispondenza e di colleganza con l’ambiente e le cose, oltre che con se stessi.

In grande consonanza con questo tema è Domenico Chianese, che con la sua ampia ricerca sottolinea la necessità e la possibilità di tornare al pensiero freudiano delle origini in cui il polo naturale e quello culturale non sono in contraddizione tra loro, ma seguono quel complesso processo di ominazione che ogni singolo uomo e ogni cultura sono chiamati a compiere. Riuscendo a distinguere e insieme a coniugare di volta in volta l’animale e l’umano, la Natura e la Storia, la Vita e la Morte: soglie critiche attraverso le quali l’uomo si può trovare o smarrire. Dice Chianese che l’urto dell’oggetto reale mobilita la nostra anima e che senza un oggetto esterno la mente si assopisce e culla i propri fantasmi, di fatto appassendosi. Aggiungendo come monito anche all’analista di non chiudersi troppo nella stanza d’analisi con tutti i suoi confortanti oggetti e le sue teorie, perché rischia a sua volta di non attingere a sufficienza a quella fonte esterna che è nutrimento dell’anima. Il pensiero che si forma da incontri col reale porta il marchio della vita e ci restituisce “il sapore del mondo”. E chiosa in una modalità molto consonante con Ingold, dicendo che conoscenza del mondo è un nascere insieme, noi e il mondo: non si è nel mondo, ma si diviene col mondo.

Quando si propone il lavoro con la sabbia, è usuale proporre al paziente di svuotare la mente da idee e immagini predefinite e lasciare che la sabbia e gli oggetti, invece che il soggetto/io chiamino la persona. Invitiamo, potremmo dire con Ingold, a lasciare che siano le cose a esprimere la loro voce, la loro presenza, tenendo aperta quella colleganza o corrispondenza di cui prima abbiamo parlato. Permettiamo dunque che sia la creatività del processo stesso in cui sia le cose che le idee come immagini o gesti vengano generate. La creatività del processo vitale della persona e dell’analista che osserva partecipante senza idee a priori a sua volta, e che pensa a quanto osservato, non è dunque un’idea a priori, ma nel flusso di quanto emerge in un dato momento e in dato incontro, sincronicamente direi, tra soggetto e cose. In questa nostra forma di thinking through making non possiamo più considerare la creazione di un quadro di sabbia solo come una proiezione del suo inconscio nel materiale della sabbiera – come il modello ilomorfico tipico del pensiero antropocenico di cui parla Ingold – ma piuttosto come un flusso in cui si incontrano ambiente ed umano e da cui emerge il quadro della sabbia.

Il Gioco della Sabbia è un luogo privilegiato per la colleganza tra umano e ambiente, persona e collettivo, piano simbolico e piano della concreta materia perché permette contemporaneamente di entrare a contatto sia con la realtà concreta, sensibile dell’oggetto in sé, sia con la possibilità sottesa nella scelta di un determinato oggetto. La sabbia può progressivamente essere trasformata ed assumere le sembianze simboliche di una caverna, un recinto, una montagna, o un ostacolo. Si può esperire l’evoluzione di pattern e strutture lungo una serie di sabbie: aperture, chiusure, allineamenti, lateralizzazioni, si possono ripetere ed evolvere in varie modalità. Si può lavorare sulla superficie tattile ed epidermica o addentrarsi nella profondità, toccare il fondo, ritrarsene e così via. In questa atmosfera il lavorare simbolicamente con le immagini delle sabbie, comporta l’esperienza di un’avvisaglia di significato più che di un segno dato. Un oggetto che non esplica ma appunto incarna un significato. Per Jung il simbolo per la sua natura paradossale rappresenta una realtà vivente con carattere psicoide, fisico e psichico insieme, come nel Gioco della Sabbia in cui le figure degli oggetti entrano con la loro tridimensionalità nel campo da gioco e la mano, il tatto, la presa, il movimento, lo sguardo, lo sfondo, il rilievo armonizzano le due diverse forme di rappresentazione e di ambiente umano-simbolico e non umano, in una composizione dinamica.

Quando Ingold ci richiama ad accorgerci degli effetti di una categorizzazione massiccia, e per questa ad una perdita della nostra conversazione con la vita, come analisti dobbiamo sentirci richiamati al lavoro sui processi interiori di una conversione ecologica della psiche e della mente, compito che ci è proprio, purché a nostra volta non ci abbandoniamo a quel noto meccanismo di denegazione della realtà che abbiamo imparato a vedere con più nitidezza in questi autori. Concludo tornando a Searles che parlava di una sorta di apatia che circonda il tema di ciò che è fuori di noi. Diceva che gli uomini nella loro esistenza cercano strenuamente di differenziarsi dal vivente non umano, così come, aggiungerei, dalla nuda materia. Provando verso questo un’angoscia di annullamento, di riassorbimento nell’indifferenziato.

Tuttavia occorre avere e coltivare una diponibilità a conoscere anche questo livello non umano, per ritrovarne le affinità strutturali in termini di fisiologia, anatomia e storia evolutiva con l’uomo e col suo destino biologico in cui il nostro corpo fisico, dopo la morte e prima della nascita, sono una parte dell’ambiente non umano. Come sostiene Chianese, tutto ciò oltre che rafforzare un senso di realtà più sano, allevia la solitudine esistenziale dell’uomo che sa che il suo è un destino di una separatezza, anche se non totale, col resto della natura. A fronte di una crisi ecologica sempre più pressante e un’apatia che sembra congelarci, la corrispondenza, la colleganza con l’intorno, possono attenuare il timore della morte e aiutare a trovare un senso più sano di continuità e appartenenza con la vita, così come uno slancio a difendere con forza quanto ci circonda.

Da RIVISTA ORME NR. 06 di Anna Maria Cester.

BIBLIOGRAFIA

Chianese D., Come le pietre e gli alberi, Roma, Alpes, 2015

Gibson J. (1970), L’approccio ecologico alla percezione visiva, Sant’Arcangelo, Mimesis, 2014

Hillman J., L’anima dei luoghi, Milano, Rizzoli, 2004

Ingold T. (2013), Making Antropologia, archeologia, arte e architettura. Milano, Raffaello Cortina Editore, 2019

Jung C.G. (1911/52), Simboli della trasformazione, in Opere, vol. VIII, Torino, Bollati Boringhieri, 1970

Searles H. (1960), L’ambiente non umano nello sviluppo normale e nella schizofrenia, Torino, Biblioteca Einaudi, 2004

Stern D. (1987), Il mondo interpersonale del bambino, Torino, Bollati Boringhieri 2000